lunedì 7 gennaio 2013

Dall'angoscia della caduta alla voglia di risalire


Uno spicchio della sua storia è rimasto lassù, ad un'altezza di undici tiri di corda e a 30 metri dalla vetta del Corno di Grevo, in alta Valle Adamè. Centocinquanta giorni fa - era il 10 agosto - Paolo Zeziola arrampicava come un ragno nel sole. Afferrò un appiglio a due mani e tese i muscoli, poi le dita lo tradirono. E fu il vuoto. «Non ricordo nulla», spiega Paolo mentre si passa un cordino tra le mani. «Quando ho aperto gli occhi erano già passati cinque giorni e a un'infermiera ho detto: non sono io che mi sono fatto male, è Luca!».Siamo ad Angone di Darfo e impariamo che la montagna regala storie di speranza, non solo di conquista. Paolo e Luca,
istruttori di alpinismo del Cai di Lovere e pilastri della sottosezione di Darfo, quel 10 agosto hanno vissuto il loro dramma d'alta quota da tenere tutti col fiato sospeso. Paolo «vola» per 14 metri tra le fauci affilate della montagna: l'imbrago rimane appeso al «rinvio» e lui rotola contro la parete e oscilla come un pendolo, fermandosi a 6 metri dal suolo. «Il mio nuovo portafortuna è questo», ci spiega mostrandoci un «Nut» di arrampicata, una sorta di morsetto con cavo d'acciaio chel'ha tenuto appeso a testa in giù. «Luca si trovava sotto e per fortuna non si è fatto niente».Il 10 agosto a valle arrivò la voce che due alpinisti bergamaschi erano precipitati percorrendo la ferrata dello spigolo del Corno di Grevo e il recupero era difficile per la nebbia in quota. Solo il giorno dopo si seppe che i due sfortunati erano i darfensi Paolo e Luca impegnati a salire in arrampicata la loro «via sfortunata» (loro usano un'espressione più... esplicita) dove, un anno prima, Luca si era slogato una spalla. Alle due di pomeriggio del 10 agosto, in pochi secondi si consuma il dramma: Luca allerta il 118 e riporta al suolo l'amico che ha riportato ferite alle gambe. Gli lega le ginocchia con un cordino, lo copre con un telo di alluminio e anziché l'elicottero della salvezza, il cielo regala una nebbia maligna accompagnata da neve ghiacciata. Un'ora e più di solitudine, silenzio e gelo. «L'elicottero faticava ad avvicinarsi perché ci trovavamo in un punto infame», racconta Paolo. 
«Il soccorritore si è calato col verricello e mi ha sollevato abbracciandomi: io non ero cosciente, mi hanno poi detto che ho urlato come un pazzo». All'Ospedale Civile di Brescia Paolo viene tenuto in coma farmacologico: affronterà sei giorni di rianimazione e altri 15 di degenza con fratture multiple a tutto il lato sinistro del corpo e al bacino, sfondamento alla scatola cranica all'altezza delle due sopracciglia e frattura dello zigomo destro che ancora gli crea problemi di vista: «Non riesco a guidare» sottolinea. In attesa del prossimo intervento chirurgico che dovrà restituirgli la funzionalità all'occhio destro, Paolo ha accettato di aprirci le porte di casa dove la moglie Miriam e i figli l'hanno aiutato a tornare a vivere. Oggi cammina senza stampelle e guarda le «sue» montagne dalla finestra del salotto. 
«Almeno ha nevicato poco - continua sorridendo -. Sarebbe stato un supplizio maggiore vederle imbiancate e non poterci tornare». Perché ci tornerà, questo è sicuro: lui, l'amico Luca e il suo «Nut» portafortuna.

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